Archivio per il mese di aprile, 2015

Regionali 2015 – C’è un problema nel M5S?

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La Casa della Legalità ha scoperto che un attivista del M5S, sostenitore della candidata Alice Salvatore, è Carmine Mafodda.
Sollecitati a dare una risposta, la Salvatore ha detto che non importa e Mafodda ha scritto di ritenersi una brava persona, pur portando quel cognome.
Risposte che non soddisfano la Casa della Legalità che vorrebbe una più chiara presa di posizione contro la ‘ndrangheta.
Ho fatto la sintesi della questione che potete leggere qua nei dettagli.
Trovo che obiettivamente ci sia un problema che però fa sorgere dei dubbi.
Siamo d’accordo sul fatto che Mafodda potrebbe portare voti di ‘ndranghetisti al M5S alle regionali, ma mi risulta che a Diano Marina, per esempio, ci siano almeno cinque famiglie poco raccomandabili e allora mi chiedo: per chi voteranno?
Se è chiaro, ma fino a un certo punto, che la famiglia Mafodda voterà per la Salvatore, con tutte le altre famiglie (e in questi anni abbiamo visto quante ce ne sono da Ventimiglia a La Spezia) come la mettiamo?
E’ quindi palese un’altra cosa: chi è vicino, o fa parte di certi ambienti, vota e vota per chi vuole.
Come si dovrebbe procedere: impedir loro di votare?
Sarebbe meglio non avere certi personaggi tra i piedi in campagna elettorale, o alle primarie; sarebbe opportuno non farsi fotografare insieme a loro; bisognerebbe dire, magari ipocritamente, che non si vogliono i loro voti, ma il giorno delle votazioni anche loro andranno al seggio e metteranno la scheda nell’urna.
Quindi non vedo una soluzione: se uno va a votare, significa che ne ha il diritto e non gli si può togliere.
L’unico modo per poter accusare  qualche candidato di aver preso voti dagli ‘ndranghetisti (o gentaglia simile), sarebbe quello di avere delle intercettazioni che lo dimostrassero.
Non vedo altre vie di uscita.
Voi cosa ne pensate?

Scritto da Angelo Amoretti

28 aprile, 2015 alle 16:03

Regionali 2015 – La Paita e la Resistenza

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Ricapitolando: la Costituzione è nata dai valori della Resistenza.
Renzi, il suo partito e il suo governo la stanno rottamando, quindi trovo bizzarro e contraddittorio che Raffaella Paita il giorno della Liberazione se ne esca per dire che “celebrare la Resistenza oggi è un atto politico” e che la Resistenza è “l’impegno per la difesa dei valori della democrazia contro la minaccia del nuovo fascismo“.
Forse fa finta di non sapere o non vede che il “nuovo fascismo” ce l’ha in casa: basta informarsi su quello che combina il suo amato capo a Roma.
Non contenta del neofascismo che sta nascendo in Italia, lancia allarmi anche per quello che starebbe nascendo in Europa: se non ha ancora capito le cause e se non vuole che Marine Le Pen sia il prossimo presidente della Francia, si tolga il paraocchi e veda di scoprire chi era prima contro e dopo pro Euro o contro e poi pro l’immigrazione clandestina: il suo gran capo Napolitano ai cui piedi si prostrano tutti e che continua allegramente a parlare di “nuovo ordine mondiale”.
Ma restiamo nel locale: la Paita un giorno è contenta, l’altro scontenta.
Quando NCD ha detto no all’entrata nella sua coalizione (nonostante i tentativi di accordo di Burlando con il partito di Alfano), la carismatica prossima presidente della Regione ha dichiarato che se avesse perso per due punti sarebbe stata colpa loro (dei nuovicentristidestri), ma quando ha visto la squadra di Toti le si è rialzato il morale: “Con quelli lì faccio il pieno“.
Avevo già detto che se il centrodestra non avesse tirato fuori un coniglio dal cilindro, avrebbe avuto poche speranze di batterla e ne sono sempre più convinto.
Verrebbe da pensare che negli accordi tra Berlusconi e Renzi ci sia anche la voce “Regionali” (la Paita ha sentito parlare di un patto denominato “del Nazareno“, vero?

Scritto da Angelo Amoretti

27 aprile, 2015 alle 8:01

Imperia: alla mensa dei poveri bisogna prenotare

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Riporto un articolo di Giorgio Bracco pubblicato su La Stampa di oggi, per riflettere:

Richieste in aumento e la sala da pranzo è diventata troppo piccola

«Ogni giorno accogliamo dodici persone. Un numero simbolico, dodici come gli apostoli. Le persone si devono prenotare e iscriversi nella lista. Gli altri si devono accontentare del cosiddetto sacchetto. Si dà quello che passa il convento. La provvidenza è grande e basta sempre per il primo e il secondo piatto, la frutta o il dolce. La lista si rinnova ogni settimana dando anche agli altri la possibilità di mangiare un piatto caldo. Quando il numero supera il 12 (succede spesso) ci comportiamo in questa maniera: se c’è una persona in più la accogliamo lo stesso per non mandarla da sola con il sacchetto. Se sono 14 o più, ne accogliamo 12 e agli altri diamo un sacchetto di viveri (un panino, una scatoletta di tonno, una di carne, un formaggino, un frutto, un dolce). Il numero medio dei poveri che bussano alla porta per mangiare è 14-15 per giorno».
Le parole di Fra Andrea, padre francescano e guardiano della chiesa-convento dei Cappuccini di piazza Roma, pubblicate sul bollettino parrocchiale «Ascoltami», spiegano – più di ogni altra cosa – la situazione di grande difficoltà, sociale ed economica, di tanti, non solo extracomunitari o clochard, ma anche italiani. Gente di ogni età, costretta dagli eventi a chiedere un pasto caldo o un pacchetto viveri ai Cappuccini imperiesi.
«Noi frati cappuccini non abbiamo un’attività specifica: missioni, opere di carità, parrocchie, scuole, ospedali… – continua Fra Andrea – dobbiamo semplicemente sforzarci di fare da ponte tra gli uomini. La mensa dei poveri presso il nostro convento è una piccola testimonianza di questa realtà storica». Fra Andrea è un giovane francescano molto amato e apprezzato a Porto Maurizio, e non solo dai parrocchiani. Un anno fa, durante il tradizionale rito pasquale del Giovedì Santo, nel lavare i piedi ai poveri ha chiesto ai fedeli non le solite offerte in denaro ma viveri per la mensa. Il risultato? Decisamente positivo. Sono in continua crescita le offerte di generi alimentari di associazioni e privati. Tanto che, come sottolinea lo stesso Fra Andrea, «non abbiamo più bisogno di rivolgerci alle fondazioni».
Nelle ultime settimane è nato il progetto per una raccogliere fondi per rendere l’ambiente più accogliente e risistemare la sala da pranzo. Il locale sinora utilizzato è diventato troppo piccolo, viste e considerate le richieste di ospitalità in aumento. «Grazie a Dio, grazie ai benefattori che fanno carità e grazie ai poveri che, bussando alla porta e chiedendo il pane, ci aprono la porta del Paradiso», si congeda Fra Andrea. Tra i più assidui benefattori del convento ci sono i volontari dell’Ordine di Malta e gli operatori dell’Aido (associazione italiana donatori organi). «Il nostro è un progetto di aiuto verso i nostri concittadini che versano in stato di povertà», conferma Corrado Milintenda, portavoce del corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta.

Giorgio Bracco – La Stampa, 21 aprile 2015

Scritto da Angelo Amoretti

21 aprile, 2015 alle 19:08

Regionali 2015 – Il PD perde i pezzi: Scibilia si ritira

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Nonostante il suo profilo su Facebook sia “semi-chiuso”, Riviera24 pubblica lo “stato” del piddino Sergio Scibilia che, fino a ieri mattina, su la Stampa, era dato per probabile assessore regionale in Liguria.
Visto che la privacy sul suddetto social va a farsi benedire un giorno sì e l’altro pure e che il portale lo ha reso visibile al mondo intero, lo riporto anche io perché lo ritengo interessante:

Ora credo che non ci siano più segreti, io il 31 maggio non sarò candidato alle elezioni Regionali.
Questa non è stata un decisione personale, ma discussa e ragionata all’interno del Pd, il mio partito – scrive Scibilia, che prosegue – Credo ancora nella disciplina e nel dovere di appartenenza ad un partito politico.
In tanti mi stanno chiedendo in questi giorni se sia giusta questa decisione di non ricandidarmi, pur avendo fatto una sola legislatura .
Io credo di si, così è stato deciso e così farò.
Sarò in campagna elettorale affianco alla candidata Presidente Lella Paita, vincitrice assoluta delle primarie , persona onesta, capace, energica , preparata , attenta e di grande esperienza .
Sosterrò come consigliere Massimo Donzella , uno dei candidati espressi dell’area Paita, mio amico , con cui ho collaborato in modo positivo per cinque anni.
Amministratore conoscitore dei problemi del territorio , sempre presente alle attività istituzionali e buon esperto della macchina regionale .
Mi impegnerò in questa campagna, troppo avvelenata e cattiva, come se fossi candidato personalmente .
La Liguria ha la necessità di essere ancora governata con persone competenti .
Non posso pensare che “paracadutati” da Roma o da Bruxelles , possano diventare protagonisti del mio futuro .
Io credo nella coerenza, nella schiettezza dei pensieri , delle idee.
Non mi piacciono i traditori , i meschini , chi sguazza nel torbido, chi ancora oggi ha responsabilità di governo nella Giunta Burlando e lavora contro il Pd.
Ringrazio infine una persona speciale , Claudio Burlando.
Ringrazio la mia famiglia , tutti coloro che mi sono stati vicini in questi cinque anni e saluto in modo particolare chi “rosica” ancora dei miei ” piccoli” e “modesti ” obiettivi che ho raggiunto .
Ancora oggi mi appassiona la politica, la competizione , il confronto acceso.
Mi appassiona ancora la buona amministrazione , combattere certe ingiustizie, certe angherie di potere, certa stupidità politica – conclude Scibilia – Mi piace ancora costruire qualcosa per il futuro.
Quindi sicuramente , rifarei tutto al 99,99% di quello che ho fatto sino ad oggi, sempre convinto sostenitore e servitore solo del Partito Democratico , non avendo avuto mai nessun padrone e non essendo mai stato servo di nessuno . Spirito libero.
Forza Paita, avanti Pd 
Votate Donzella.

E’ il secondo caso di “arrivederci e grazie” di un piddino locale che mi capita di venire a sapere.
Il primo, lo ricorderete, fu quello di Giorgio Montanari che lasciò il Partito Democratico e il consiglio comunale senza però aver mai dato una spiegazione.
Scibilia invece la fornisce in parte scrivendo di “traditori” e “paracadutati da Roma e Bruxelles” e sarebbe interessante sapere di chi scrive, nello specifico, così, per curiosità.
Non conosco Scibilia, ma uno che dice di non essere  mai stato “servo di nessuno” e rinuncia a una possibile poltrona da 8-10 mila euro al mese, è da salutare con rispetto, nonostante tutto.

Scritto da Angelo Amoretti

20 aprile, 2015 alle 9:03

Lo scrittore Marino Magliani intervista Daniele La Corte

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Impressioni e qualche domanda a Daniele La Corte, autore di “La casa di Geppe”.

Non fosse per quel paesaggio collinare e i tempi della Resistenza che informano fin da subito sul dove siamo e cosa succede, e sulla povertà delle campagne piemontesi che appaiono come se si leggessero epiche fenogliane o le fughe a schiena bassa tra i filari che ci ha lasciato Pavese, di primo acchito la figura di Geppe potrebbe ricordare i romanzi di Emanuel Bove. Certo, qui manca la città che stritola, come manca la tenaglia dell’angoscia esistenziale, ma è quel Geppe perdente, orfano, maltrattato fin da bambino, a legarsi in modo così naturale a una certa letteratura. Noi conosciamo Geppe che è un giovane contadino, vivente del poco che danno la campagna e le bestie, e quel poco bisogna dividerlo coi proprietari della cascina. (Sia chiaro, il prezzo di questo libro lo vale da solo l’attento studio antropologico di La Corte: sembra di leggere “Il mondo dei vinti”, di Nuto Revelli, con le sue frasi in dialetto piemuntais e le testonianze “in presa diretta” dei braccianti.) Ma sono poche pagine, quelle del Geppe perdedor intendo, perché quando entrano in gioco Carmen e Pablo entra in gioco la storia, o la Storia. E allora, a quel punto, è come se a Geppe, persona mai coinvolta in fatti notevoli, fosse chiesto di “fare qualcosa”.
Faccia qualcosa” chiede la signora Delgado a Pereira sul treno, tornando a Lisboa, mentre stanno nel vagone ristorante a guardare il paesaggio del Tago. Faccia qualcosa per il Portogallo, intende la signora Delgado, per la libertà del Portogallo oppresso dal salazarismo, qualcosa per far cessare quest’aria di morte. Di nuovo, quante somiglianze, pur in tutt’altre trame e genesi, pur forzando, quanta letteratura che lascia respirare libertà. Leggete infatti La casa di Geppe e dite se quando si presentano a noi Carmen e Pablo non è come se avessimo davanti Monteiro Rossi e Marta di “Sostiene Pereira”? Entrambi giovani e perseguitati dal fascismo, entrambi uniti dall’amore – anche se i giovani di “Sostiene Pereira” sono portoghesi e mezzi italiani – per la causa repubblicana spagnola. Entrambi uniti da un destino che non riveleremo, ecco, dunque, che in sostanza, benché uno sia un cittadino, un intellettuale, giornalista, cattolico, cardiopatico con una vita che scorre nel ricordo di una moglie morta, e l’altro un relitto della campagna calpestatata nei secoli, Pereira e Geppe finiscono per scegliere di stare dalla stessa parte. Geppe si mette in gioco proteggendo la coppia di giovani fuggiaschi spagnoli e dando copertura a Henry, (inglese, antifascista, e agente, che entrerà in contatto con la Resistenza) e nascondendo la sua moto Norton. E il romanzo si chiuderà con la fine della guerra di Liberazione. Anzi, con una domanda.

Nell’introduzione si parla di microcosmo, ma a parte la vita del paese, con podestà, fascisti e antifascisti e gente che sta a guardare, e persino un prete (non assomiglia al padre António che discute con Pereira sulle posizioni di Mauriac e Bernanos, ma don Giustino è comunque un antifascista quanto lo è padre António ed è anche molto pratico: per farsi passare le informazioni chiede a Geppe se vuole confessarsi), a parte quella chiusura iniziale di luoghi, dopo un po’ gli spazi si aprono a ventaglio, e dal Piemonte si cala in Liguria come se si calasse nella nostra, di Storia. Si cala in quello che è il nostro microcosmo, popolato dalle nostre icone.
Ventuno capitoli che raccontano i venti mesi, Daniele La Corte, con salti in Spagna ai tempi dei terrori falangisti, con pagine sul pallone elastico e la Liguria, si diceva, tanta Liguria, con i miti che noi tutti (la grande parte) riconosciamo, come Felice Cascione, Silvio Bonfante e persino leggende viventi come Carlo Trucco, e una sezione iconografica che mostra un Trucco roccioso e solare.

Quando è nata questa storia?

L’idea di Geppe nasce dai ricordi dell’infanzia. Mia madre, monregalese, mi ha sempre raccontato la realtà di un mondo diverso da quello che vivevo io nato davanti al mare di Alassio. È la voglia di non dimenticare, di non strappare le radici dove una parte della mia famiglia, quella materna appunto, aveva visto il succedersi di eventi tragici e spesso discordanti tra loro. I racconti che avevano come teatro l’ambiente bucolico di un Piemonte attraversato da situazioni difficili mi ha sempre affascinato. Geppe è un personaggio che prende corpo da una memoria viva, dal contadino che avevo visto più volte lavorare nella stalla di miei parenti proprietari di cascine e bestiame. Così nel mix di ricordi ho cercato di dar vita a un personaggio frutto di realtà e fantasia. Nel settantesimo anniversario della Liberazione ho pensato di cimentarmi in un romanzo che possa, mi auguro, avvicinare più facilmente i giovani alla Storia del nostro Paese diventato libero grazie alla Resistenza.

Il romanzo è impreziosito da un’intelligente prefazione di Giancarlo Caselli. Come è nata questa collaborazione?

La legalità è da sempre il mio chiodo fisso e Geppe, nella mia testa, rappresenta, o almeno dovrebbe rappresentare il senso civico di chi, anche povero e diseredato, tiene la schiena dritta. Ecco perché ho chiesto al dottor Caselli, che più volte ho intervistato nella mia vita di cronista, se voleva darmi il suo contributo per un lavoro all’insegna della legalita contro ogni sopruso. Giancarlo Caselli è un’icona contro la mafia, contro lo strapotere del malaffare, simbolo dei magistrati coraggiosi che il potere ha cercato, in diversi modi, di bloccare. Ci sono riusciti bloccandogli la carriera con una legge ad personam, ma non sono riusciti, neppure oggi, a bloccargli la parola è la forza di essere uomo libero vessillo della legalità

Di tuo avevo guardato Storie di uomini e di donne (Calvo editore, 1995). Me l’aveva regalato un grande amico, scomparso da alcuni anni, ma ben presente e molto amato da questa città. Si tratta di Franco Pullia, che pubblicava i suoi saggi con il Centro Editoriale Imperiese di Emilia Ferrari. Ebbene, ricordo che anche in quel tuo libro rivivevano i racconti partigiani. E la cosa che più mi aveva impressionato era stata la forza di una lingua fedelissima, apparentemente semplice, ma molto sorvegliata. Io la conoscevo bene: era la lingua che ascoltavo da bambino, negli anni sessanta, seduto sui muretti del carruggio, gli occhi alti, sulle pietraie che circondano Pistuna, lassù dove cadeva la luce e restava un fuoco a divorare le stagioni. Raccontaci la lingua di La casa di Geppe.

È il fulcro del dialogo di persone di cultura e nazionalità diverse che hanno come base la forte volontà di strappare le catene che impedivano libertà di espressione di movimento. Il cocktail di lingue, il misto di spagnolo, inglese e stentato italiano sono per me l’immagine fantastica di un’Europa che metteva già allora fondamenta salde per l’unione tra i popoli. Geppe è l’Italia che si scrolla da dosso il giogo nazifascista, il nazionalismo anacronistico e insulso dell’uomo solo al comando.

E adesso?

La domanda non trova facile risposta. Ciò che Geppe e gli altri cercavano ha lasciato molti con la bocca amara. L’Unità tra i popoli non si è avverata e la globalizzazione si è sostituita, in maniera abnorme, all’individualità dei singoli che per l’Italia libera e democratica hanno dato la vita. Forse, come Geppe, ci aspettavamo di più sperando che il Paese crescesse non solo economicamente ma anche culturalmente. Ai tanti Geppe sparsi per il mondo auguro la scoperta di una casa comune dalle pareti di vetro dove il governo sia veramente del popolo e non di un nutrito gruppo di parassiti pronti a sfruttare il lavoro del più debole.

Scritto da Angelo Amoretti

18 aprile, 2015 alle 15:19

Il camerata Fabio Tortosa con la Ceres in mano

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Visto che il G8 del 2001 di Genova mi ha toccato da vicino, a seguito delle deliranti dichiarazioni del signor Fabio Tortosa sulla sua pagina FB che al momento avrete letto tutti, riporto un articolo che ritengo interessante.
Con Imperia, in sé, ha poco a che vedere, ma forse sì, visto che il ministro dell’interno dell’epoca era Claudio Scajola. Mi si perdonerà, quindi, se mi occupo un attimo della faccenda.

E adesso radiate il camerata che infanga tutta la polizia
Alessandro Cassinis – Il Secolo XIX

Vorrei chiedere al camerata Fabio Tortosa, l’eroe del VII nucleo di polizia che con “giovane vigoria” ha sfidato la sorte irrompendo in una scuola di ragazzi già picchiati,stanchi e mezzo addormentati, perché non si è vantato di questa ardita impresa davanti ai magistrati che lo hanno indagato.
Vorrei sapere perché un uomo così coraggioso, che rivendica e giustifica un’azione da libro di storia, ha aspettato che tutto venisse prescritto, che l’accusa gettasse la spugna davanti a tutte quelle divise anonime e quei caschi impenetrabili di gladiatori come lui che picchiavano e torturavano ragazzine e poveri diavoli di ogni età, prima di dichiarare che vorrebbe farlo “mille e mille volte”.
Anch’io quella notte ero alla Diaz, camerata Tortosa. Eravamo in tanti, malgrado lei, a cercare una ragione di quel sangue sui caloriferi, di quei bastoni macchiati di rosso e sporchi di capelli, di quei ragazzi che piangevano e tremavano e cercavano la loro roba in mezzo a un campo di battaglia.
Vorrei sapere perché un assaltatore così ardimentoso, quando hanno identificato e chiamato a deporre i suoi capisquadra, non ha avuto il fegato di presentarsi spontaneamente, visto che era indagato, per assumersi con queste virili parole la responsabilità della più vergognosa soppressione dei diritti civili che l’Italia repubblicana e democratica ha dovuto subire, e che ci ha esposto a una condanna internazionale e all’esecrazione del mondo.
Vorrei sapere perché ha aspettato quattordici anni per augurarsi che Carlo Giuliani «faccia schifo ai vermi».
Vorrei sapere perché ora che ha finalmente espresso il suo “entusiasmo cameratesco” e ha dato libero sfogo alla sua indole fascista, ha ritirato la mano e cancellato la sua pagina su Facebook malgrado i 180 “mi piace” vergati con cuore indomito dai patrioti in divisa che come lei difendono il popolo italiano anche se non se lo merita.
Ora è tardi, camerata Tortosa. Da cittadino che paga le tasse per avere una polizia onesta e rispettosa della nostra Costituzione mi aspetto che almeno lei faccia la fine che avrebbero dovuto fare i suoi superiori: la radiazione perenne e insindacabile da una Polizia di Stato che non merita il fango delle sue parole.
È una magra consolazione per la ferita che Genova si porta dentro dal 2001, lo so. E sarà facile per il ministro Alfano alzare la voce con un piccolo agente esaltato come lei. Ma è da qui che si deve partire per ridare un senso alla giustizia e alla legalità di questo Paese: lei non rischia più nulla davanti alla legge, camerata Tortosa, ma non è degno di indossare quella divisa che ha infangato la notte del 22 luglio 2001 e che ora torna a insozzare con queste intollerabili parole.
Mi aspetto le repliche indignate dei suoi camerati. Non mi troveranno “con una Ceres in mano”, come dice lei, ma con la certezza che una polizia migliore è possibile, e che sicuramente c’è. Non invoco Batman, camerata Tortosa. Per la sicurezza mia e degli altri cittadini basta un bravo poliziotto.

Scritto da Angelo Amoretti

15 aprile, 2015 alle 10:31

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Regionali 2015: già trovato il colpevole in caso di vittoria della Paita

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Chi farà vincere la Paita in Liguria è il 5 Stelle. Se si mantiene questa classe dirigente che ha devastato la Liguria, la responsabilità è dei 5 Stelle“.
Ferruccio Sansa, giornalista de il Fatto Quotidiano, ha dichiarato quanto sopra durante la trasmissione Agorà su Rai3, lo scorso 9 aprile [chi ha Facebook può verificarlo qua]
Quindi ha già trovato il colpevole ancora prima del delitto.
Purtroppo questa frase l’avevo già sentita in altre occasioni e speravo di non doverla più sentire, ma tant’è, il disco è quello lì e non si cambia, sebbene sia alquanto rigato e ormai suoni male.
Premesso che Sansa di colpe e colpevoli ne sa più di me, visto che conosce bene Genova e abbastanza il resto della Liguria, mi permetto di dissentire.
E’ un classico di certa “sinistra” dare la colpa agli altri, quando perde: si individua il soggetto più vulnerabile e gli si spara contro.
Potrei anche dire tranquillamente che “se vince la Paita” la colpa è di questa sinistra che invece di colpevolizzare gli altri, dovrebbe fare una seria autocritica e magari avere l’onestà e la dignità di dire: “Se vince la Paita è anche colpa nostra”.
Basta vedere lo scempio che sta avvenendo a sinistra del partito democratico: infinite sigle e siglette con rispettivi candidati alla presidenza forse non aiuta molto a far perdere l’amica di Burlando. Servirà a farla vincere e poi, magari, avere un piccolo contentino, visto che in alcune di quelle liste ci sono svariati “avanzi” del partito democratico.
E lo stesso ragionamento vale per il centrodestra: anche lì non si scherza in fatto di frantumazione.
Quindi direi: prima di dare la colpa “agli altri”, aspettiamo prima di tutto di vedere chi cadrà e poi ognuno rifletta in casa propria.

Scritto da Angelo Amoretti

13 aprile, 2015 alle 11:57

Regionali 2015: gran disordine sotto il cielo

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Giorni fa lamentavo l’assenza della sinistra nel panorama delle prossime elezioni regionali e finalmente sono stato accontentato.
Si sono svegliate dal torpore le svariate anime, quelle che forse stanno ancora a discutere sui trattini e sulle “e” [marxista-leninista o marxista e leninista].
Mi fa piacere, in ogni caso, che siano usciti allo scoperto perché perlomeno, come chiedo da settimane, riusciranno a rendere un po’ meno facile la vittoria della Paita.
Si è svegliata anche la destra che apparentemente non sembra affatto rassegnata.
Devo ancora capire come gli ex votanti di Claudio Scajola possano votare Toti [ricordo che dopo essere stato escluso dalle liste per le europee dal consigliere in tuta di Berlusconi, il nostro concittadino disse al Fatto Quotidiano: "Toti? Uscito da sotto un cavolo"].
C’è comunque la storia del famoso voto disgiunto per cui, chissà, gli amici potrebbero votare suo nipote Marco e un altro candidato alla presidenza.
Di Marco Scajola non sapevano neppure Mariastella Gelmini, Pippo Civati e Giovanni Toti, come dimostra questo a dir poco bizzarro articolo apparso su Libero, riportato da Dagospia e segnalatoci dal lettore Peluffo.
I tre straparlano di candidare Piercarlo (il figlio di Claudio che peraltro non si è mai occupato di politica) ignorando che in lista con F.I. già c’era Marco e manco a farlo apposta qualche giorno dopo sui muri della città campeggiavano in bella vista i manifesti 6×3 con il viso di Marco Scajola e la scritta: “Io ci sono”.
Oltre a questo, trovo discutibile l’articolo di Libero perché generalmente i piddini pur di non votare un altro partito, se ne stanno a casa.
Io mi sono stancato e ora la penso diversamente, “all’americana”: voti un partito e poi non ti soddisfa il suo modo di fare politica? Alle prossime elezioni ne voti un altro. Non mi sembra tanto difficile.
Sul risveglio della sinistra ci sarebbero da scrivere fiumi di parole. Continua a sembrarmi allucinante che non si riesca a fare una lista unica e che ce ne debbano essere due o tre. Per dire: Pastorino, peraltro scappato dal PD e quindi, per quanto mi riguarda, poco affidabile, appoggiato da Rifondazione, SEL, Altra Europa per Tsipras (e qui un altro fiumiciattolo di parole andrebbe speso) dovrà vedersela anche con Ferrando, che si candida con il Partito Comunista del Lavoratori. E continuo a non capire tutte queste frammentazioni che finiscono per fare il gioco degli altri. Ricordate la candidatura di Tirreno Bianco alle amministrative di Imperia con lo stesso partito? Prese 164 voti e non si vide più.
Ci sarebbe Carla Nattero, che per poco non venne eletta in Senato alle scorse politiche (e non alle europee, come erroneamente riportato da un portale locale) di cui parlare.
Capisco la sua passione per la politica, ma in coscienza speravo che dopo quella esperienza scegliesse di ritirarsi definitivamente dalla scena. Per carità, le voglio bene e in Consiglio comunale ha svolto il suo ruolo in maniera impeccabile, ma gli elettori credo abbiano voglia di vedere facce e nomi nuovi. Ora è probabile che in quell’area ne siano a corto e in questo caso bisognerebbe stabilire se sono stati i giovani a non avvicinarsi a quest’area o viceversa perché come scrive Alberto Bagnai sul suo libro “L’Italia può farcela” [che consiglio caldamente]: “se davvero si vuole contribuire a creare una coscienza di classe bisogna essere disposti (non dico capaci: dico disposti) a farsi ascoltare, e per farsi ascoltare bisogna essere disposti a rinunciare a un certo vetusto linguaggio liturgico che purtroppo alberga in certi ambienti.“.
Ci sarebbero ancora due cose da dire su Carlo Capacci e la sua lista. Sapete che aveva minacciato di non appoggiare l’amica di Burlando perché, dicono, a Luca Lanteri (quello del giro in elicottero con Scajola e Fiorani) era stato negato un posto privilegiato nel listino, mentre Capacci dice che il suo movimento avrebbe dovuto avere “un riconoscimento”. Ora pare che la polemica sia rientrata, non si sa se per il posto in listino a Lanteri o per il riconoscimento al suo movimento.
Se siete arrivati fin qua e avete ragionato un filino, vi sarete accorti che sono messi male un po’ tutti quanti, a parte il Movimento 5 Stelle che va dritto per la sua strada e vede aumentare i consensi.
Ci sarà da divertirsi.

Scritto da Angelo Amoretti

9 aprile, 2015 alle 18:38

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La caduta di stile dell’onorevole Claudio Scajola

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L’ex parlamentare Claudio Scajola, in tribunale, si permette di fare battutine su Ivan Bracco, l’ispettore capo della Polizia Postale di Imperia.
Mi dispiace che l’onorevole abbia avuto questa caduta di stile. Bracco è un poliziotto, uomo dello Stato, molto di più di quanto lo sia Claudio Scajola, che, anche se probabilmente si crede un cittadino “più uguale” degli altri, forse dovrebbe avere un po’ più di rispetto per un servitore dello Stato, quindi di tutti noi.
Lo dico senza polemica e se dovessi scegliere tra lui e Ivan Bracco, non avrei alcuna titubanza.
Qui c’è la notizia.
Il Secolo XIX di oggi riporta:

[...] L’exparlamentare – che è anche imputato nel processo di Reggio Calabria per avere favorito la latitanza di Amedeo Matacena – non ha rinunciato, alla fine, a punzecchiare il poliziotto.Prima,in un momento in cui l’ispettore era uscito dall’aula,dicendo ironicamente «Bracco non c’è? È scappato?», quindi, alla fine della testimonianza dei due periti, rivolgendosi direttamente all’interessato, commentando quanto emerso proprio dalla doppia deposizione: «Le cose quando si fanno bisogna farle bene». Ricevendo una risposta asciutta e cortese: «Faccio il poliziotto e cerco di farlo bene, accerto dei fatti e li riferisco»[...]

Scritto da Angelo Amoretti

1 aprile, 2015 alle 12:40