Porto di Imperia, la “vendetta”: il piano B degli antiscajoliani

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Minasso e Grillo agganciano l’imprenditore Vitelli in caso di fallimento.

Mentre l’amministratore della spa Giuseppe Argirò tenta di salvare il porto di Imperia, districandosi tra concordati giudiziari e trattative con le banche, per riportarlo sotto il controllo del Comune, all’orizzonte si profila un piano B. Quello che contiene anche la più perfida delle vendette politiche. In caso di un fallimento, infatti, la fronda anti Scajola dei pidiellini Eugenio Minasso e Paolo Strescino, con l’appoggio di Luigi Grillo, ha contattato il re della nautica italiana Paolo Vitelli per provare a rilevare il porto in zona Cesarini.
Eugenio Minasso, Paolo Strescino, Luigi Grillo e il “Cavaliere Bianco”. C’è un’opzione “B” al piano di salvataggio che Giuseppe Argirò, amministratore della Porto Imperia spa, sta tentando di concludere destreggiandosi tra concordati giudiziari, trattative incandescenti con le banche e la gestione quotidiana dello scalo.
Se l’operazione di Argirò non dovesse avere successo e il giudice si ritrovasse di fronte al fallimento della società, a Imperia c’è chi ha pensato ad una possibile alternativa.
L’arrivo di un imprenditore in grado di intervenire con forze proprie e magari con una “colletta” nei confronti dei proprietari dei posti barca – che di fronte all’ipotesi di perdere tutto accetterebbero probabilmente un altro esborso – e rilevare il porto. Non è un caso che i primi a muoversi su questo possibile scenario siano stati gli avversari dell’ex ministro, nonché primo sostenitore del porto, Claudio Scajola: ovvero l’ex deputato Eugenio Minasso e l’ex sindaco Paolo Strescino. Attraverso la mediazione dell’ex senatore, anche lui Pdl, Luigi Grilllo hanno preso contatto con Paolo Vitelli, da poche settimane neodeputato con la lista Monti, ma soprattutto proprietario di un gruppo leader della nautica come Azimut, nonché gestore dei porti di Varazze, Livorno, Viareggio. L’industriale avrebbe manifestato perplessità per l’operazione a causa del velenoso clima politico locale, ma con il ventaglio di combinazioni possibili non è escluso che decida di fare rotta a ponente. Uno sbarco che, a determinate condizioni, rappresenterebbe un affare per Vitelli e anche la più crudele delle vendette per gli anti scajoliani.
La strada battuta invece da Argirò, manager sostenuto dall’industriale Gianfranco Carli, è quella di un risanamento da raggiungere attraverso l’accordo con le banche e l’uscita – con passaggio delle quote al Comune – dell’ormai decotta Acquamare, altra srl di Caltagirone, che detiene ancora un terzo di Porto Imperia (gli altri due terzi sono del Comune e del gruppo di imprenditori locali).
In attesa che il giudice Ottavio Colamartino si pronunci sul piano concordatario di Argirò, la Porto di Imperia spa cerca di mandare avanti uno scalo costruito a metà.
Proprio ieri la società ha ricevuto da Roma il nulla osta della commissione di Valutazione Impatto Ambientale del ministero che ha ritenuto le difformità progettuali compatibili, fissando però alcune prescrizioni per il monitoraggio della posidonia per sette anni.
Nel frattempo sta per aprirsi il cantiere che completerà la viabilità interna e nello stesso tempo porterà a termine l’allaccio fognario mai realizzato da Acquamare, il tutto per una spesa di 700 mila euro.
Poi è prevista la risistemazione della passeggiata nella zona della hall del mare, e a giugno sarà finalmente disponibile la grande autorimessa.
E, a sorpresa, Argirò sta valutando l’ipotesi di una riduzione delle volumetrie residenziali.
Da segnalare infine che, se fino all’esplosione dello scandalo giudiziario (il processo per truffa è in corso a Torino) il porto era un far west gestito in anarchia, oggi è oggetto di un surplus di attenzioni da parte di tutti i possibili organi di controllo dalla Capitaneria alla Asl, all’Arpal. «Lavoriamo per recuperare credibilità – dice Argirò – e contiamo su una collaborazione più proficua con gli organi di controllo al di fuori di eccessi formali e particolari rigidità».

Marco Preve – la Repubblica, 27 marzo 2013