SAD CITY – di E. Stark – Decima puntata

senza commenti

Il tempo passava e mi stavo preparando all’ultimo atto della mia missione per salvare Sad City: l’ultimo, il più rischioso, il botto finale.
Come ogni città che si rispetti, anche Sad City aveva i suoi parlamentari, alcuni con poco potere, altri con tantissimo.
Uno in particolare mi stava sulle palle perchè con la sua banda era letteralmente diventato padrone della città, e non solo. Bisognava impedirgli di fare ulteriori danni. Aveva fatto anche cose positive, ma soprattutto per le tasche sue e dei suoi amici, poco o niente di utile per la cittadinanza.
Il piano stavolta era più complicato e c’era il serio rischio che venissi colto con le mani nel sacco e se così fosse stato, avrei passato il resto dei miei giorni in galera. Avevo deciso di far tutto per conto mio, in modo che nessuno, un dato giorno, potesse fare il mio nome.
Mi serviva ancora Frank.
Ogni tanto lo vedevo sulla passeggiata, ma mai una volta i nostri sguardi si erano incrociati per più di due secondi. Da quando mi aveva venduto la pistola per l’affare Garden, non avevamo più avuto alcun contatto. Il fatto che fosse libero come un uccellino significava che non aveva noie con la giustizia. Era un grande, Frank. Aveva sempre saputo come comportarsi, non aveva mai ammazzato nessuno e continuava indisturbato a farsi i suoi affarucci.
Entrai al bar dove di solito prendeva l’aperitivo e gli feci scivolare in tasca un bigliettino dove avevo scritto la mia richiesta. Lui se ne accorse, ma non si scomodò minimamente. Bevve il suo aperitivo, pagò il conto e uscì dal bar.
Alcuni giorni dopo tornai sulla passeggiata e in mezzo al brusio della gente, quando mi si avvicinò, mi disse:« Vai in macchina e aspettami.»
Feci come mi disse di fare e me ne tornai alla macchina senza fretta. Lui mi aveva seguito e lo vidi nello specchietto retrovisore avvicinarsi con aria assorta. Giunto all’altezza del finestrino mi porse con destrezza un pacchetto dicendo:«Devi solo collegare i fili e fare un numero di telefono»
Giunto a casa esaminai il contenuto del piccolo pacco: era una scatoletta nera che a occhio e croce pesava meno di un chilo. Vidi i due fili di diverso colore che penzolavano e su un biglietto un numero di cellulare.
Mi fidavo di lui: gli avevo chiesto dell’esplosivo, quel tanto che bastasse per far saltare un tombino, possibilmente senza fare troppi danni alle persone che si sarebbero trovate nelle vicinanze.
Piazzarlo fu uno scherzo. La sera, a parte in estate, in giro per Sad City non c’è nessuno, ma dovevo lo stesso fare attenzione per via di qualche macchina di pattuglia della polizia che avrebbe potuto passare da un momento all’altro. Il venerdì stabilito, alle dieci, uscii di casa e parcheggiai la macchina al bordo della strada, fingendo di andare alla macchinetta che distribuisce le sigarette. Con un piede di porco alzai il coperchio del tombino e piazzai il pacchetto sopra i tubi, poi chiusi subito il tombino. Presi la macchina e tornai a casa. Non c’era alcun pericolo: la bomba non sarebbe esplosa senza l’input del cellulare.

Scritto da Angelo Amoretti

20 novembre, 2005 alle 9:44

Pubblicato in Racconti



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