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SAD CITY – di E. Stark – Quarta puntata

senza commenti

Il fatto è che invece di fare inchieste o articoli di fondo intelligenti e costruttivi, i giornalisti aspettavano la notizia. Sembra incredibile, ma funziona così: invece di andartela a cercare, l’aspetti e quando ti arriva, il giorno dopo, la stampi come te l’hanno descritta.
Sad City andava avanti così. Nell’apatia generale.
Io ormai non lavoravo più: grazie a una legge dello stato, con diciannove anni e sei mesi di contributi avevo avuto l’opportunità di andarmene in pensione e non ci pensai due volte. Abitavo in una comoda casa di mia proprietà e tiravo avanti senza affanno.
Iniziò in quel periodo la mia voglia di darmi da fare affinchè Sad City potesse cambiare in un futuro prossimo.
C’era gente che si era messa a far politica per interesse proprio, ma anche per interesse della città e dei suoi abitanti. Quasi tutti avevano fallito. Scartai subito l’ipotesi di candidarmi in qualche lista per presentarmi alle elezioni comunali per eventualmente essere eletto al consiglio: avrei fatto un buco nell’acqua come tutti gli altri che in buona fede avevano sperato di ottenere qualcosa.
La mia rabbia saliva perchè Sad City era in mano a persone che mi stavano pesantemente sulle palle.
Solo che non mi feci prendere dall’ansia. Sapevo che per porre a termine il mio piano ci sarebbe voluto tempo e me la presi comoda, studiando tutto nei minimi particolari.
Si trattava in effetti di rendere inoffensivi quelli che si stavano impossessando della città. E i sistemi erano solo due: rovinarli finanziariamente e far perdere loro la faccia, o eliminarli direttamente.
Questo ultimo pensiero mi fece venire i brividi, ma in fondo non avevo altra scelta.
A Sad City ero un tipo ben visto: non avevo mai avuto noie con la giustizia nè con nessun altro. Ero una persona normale, nessuno avrebbe mai potuto capire le mie reali intenzioni.
Al mattino andavo al bar, compravo il giornale, prendevo il caffè e mi sedevo a un tavolino a leggere. Poi tornavo a casa e dopo mangiato, mi davo un po’ da fare per tenerla in modo presentabile. Al pomeriggio leggevo o ascoltavo musica e all’ora dell’aperitivo tornavo al bar. Non avevo amici, solo gente con cui parlare di calcio e formula uno. Parlare di politica era pericoloso: meglio evitare. Non avere amici poteva anche tornarmi utile: non mi sarei lasciato scappare nulla con nessuno e nessuno avrebbe potuto dire:« Io me lo sentivo che sarebbe finita così.»
Avevo bisogno di soldi e appoggi ma non c’erano problemi.
Con la liquidazione mi ero divertito a giocare in borsa, da casa, tramite internet, e grazie ad alcuni consigli trovati qua e là sulla rete, in pochi mesi avevo triplicato la somma che adesso stava in una banca svizzera.
Gli appoggi sapevo dove trovarli. Mi diedi alcune regole fondamentali: non scrivere nulla di quello che avevo in testa di fare né sul PC né su qualsiasi altra cosa e non usare il cellulare.
Avevo una buona memoria e non c’era bisogno di scrivere appunti e lasciarli da qualche parte, dove, prima o poi, sarebbero stati trovati.
Era arrivato il momento di mettere in atto il mio piano.

Fine quarta puntata – continua –

Scritto da Angelo Amoretti

9 ottobre, 2005 alle 11:48

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SAD CITY – di E. Stark – Terza puntata

senza commenti

Come ogni città che si rispetti, Sad City aveva due facce.
Per molti che stavano maluccio, altri stavano più che bene: alcuni industrialotti appoggiati da qualche personaggio politico influente, e qualche personaggio politico influente amico degli industrialotti.
Tutto il mondo è paese. Quello che succedeva in città dipendeva esclusivamente da queste due categorie.
I sindacati si erano arresi e venduti da tempo, l’opposizione non so se si era rassegnata o venduta, fatto sta che a Sad City non succedeva niente: ma proprio nel senso che, per esempio, un evento culturale, o un’altra cosa del genere, non accadeva se non la voleva qualcuno dei ‘potenti’ della città.
Da qualche anno non si faceva che fabbricare, soprattutto in collina. Invece di piantare nuovi alberi, i pochi che erano rimasti venivano abbattuti per costruire ville e villette, tanto poi il condono avrebbe messo a posto tutto.
Con gli aiuti finanziari dell’Unione Europea agli amministratori era venuta la smania delle rotonde: quelle piazzole che si mettono nel bel mezzo dell’incrocio per rallentare il traffico senza ricorrere ai semafori. Alcune sono utili, altre un rebus.
Credo che ancora adesso molti automobilisti arrivando in prossimità di alcune, ammesso che le vedano, cominciano a dire prima una preghiera per chiedere a Dio come devono comportarsi, poi, una volta azzeccata la mossa, forse per scaricare la tensione, cominciano a maledire colui che ha avuto la felice idea di piazzarle.
Sad City non aveva un proprio quotidiano. Aveva alcune pagine su due quotidiani nazionali. I classici quotidiani ‘terzisti’, come si diceva, e cioè che non si schieravano mai da una parte o dall’altra: stavano sempre in mezzo, perchè non si sa mai, i governi e le amministrazioni cambiano, quindi bisogna stare dalla parte di tutti.
Le redazioni della cronaca locale naturalmente si adeguavano.
C’era stato un periodo in cui uno di questi quotidiani faceva un tifo sfegatato per un industriale rampante. Non passava giorno che non ci fosse un articolo sulla crescita della sua industria. Qualsiasi cosa facesse, il giorno dopo si leggeva sul giornale. Non ho mai capito il perchè: forse ci puntavano molto per essere finanziati, forse non avevano altro da scrivere.
Fatto sta che un bel giorno l’industriale rampante finì in galera per frode e sciocchezze del genere e il giornale non se ne occupò più.
‘Almeno potrebbero raccontarci come passa le sue giornate al fresco, pensavo, ‘magari venderebbero qualche copia in più’.

Fine terza puntata – continua –

Scritto da Angelo Amoretti

2 ottobre, 2005 alle 10:46

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SAD CITY – di E. Stark – Seconda puntata

senza commenti

Quando ci fu il boom dei cellulari il divertimento principale, quando si era in pizzeria o al bar, era quello di far sentire le suonerie agli altri o di descrivere le prestazioni del proprio telefonino, come fosse stato un prolungamento di se stessi.
A pensarci bene chissà che uno psicologo non ci abbia già tirato fuori qualche cazzata del tipo ‘è un simbolo fallico’. Tutti i torti non li avrebbe. Immaginate la scena: l’uomo che mostra il suo, che è più bello di quello degli altri, e la donna che stringe il suo, nel senso ‘quello che ho fra le mani io è più bello del tuo’. Naturalmente ci si scambiavano subito i numeri. Una ragazza mi chiese il mio e le risposi: «Mi dispiace, non ce l’ho il telefonino».
Sul suo viso apparve un’espressione che all’inizio sembrava le avessi confidato di avere la rabbia, poi cambiò in una smorfia che sembrava voler dire:«Caro mio, sei proprio messo male!» e mi chiese:«Ma come fai senza cellulare?»
Le risposi che non ne avevo la necessità e tutto, ma proprio tutto, finì lì.
Sad City era una bella città in fin dei conti, ma era moribonda.
Le cause del suo declino erano molte, forse perchè aveva una bassa natalità, o forse semplicemente perchè i giovani, una volta ottenuto il diploma, emigravano nelle città che potessero offrir loro un futuro un po’ più roseo soprattutto dal punto di vista professionale. A onor del vero occorre dire che in tutta Italia, se non nell’intero mondo occidentale, ce la stavamo passando maluccio.
Anche per questo la gente era triste e i giovani svogliati.
Se andavo in un bar e alla ragazza che mi serviva il caffè dicevo: «Ciao!», lei a malepena rispondeva:«Buongiorno».
Per chi come me era stato in altre città molto più grandi e che in fondo nella mia c’ero nato e cresciuto, tutto questo appariva perlomeno bizzarro. Eppure era difficile vedere qualcuno sorriderti. E non succedeva solo con me, era proprio un fenomeno generalizzato.
Sad City aveva quarantamila abitanti, proprio come la Poisonville di Dashiell Hammett. Quella era la città dei veleni, la mia quella della tristezza. Quelli della mia età, e non solo quelli, erano diventati da anni una massa di pecorelle.
Ogni lunedì, nella stagione autunno-inverno, appuntamento fisso al cinema Roma per il Cineforum. Poteva esserci la più grossa cazzata di film iraniano, indiano o turco – per fare un esempio – che tutti andavano a vederlo. Poi, se al martedì proiettavano un capolavoro in un altro cinema, beh, i ‘cinefili’ di Sad City neppure lo sapevano.
E se dicevi loro che, secondo te, ‘Le Iene’ di Quentin Tarantino è un capolavoro, eri perduto per sempre.
Essendo una cittadina di provincia, molti film a Sad City arrivavano quando nel resto d’Italia erano già usciti da settimane, se si escludono i classici natalizi.
Allora per far girare le palle a quelli che non amavano Tarantino, spesso andavo al Cineforum a rivedere un film che avevo già visto a Genova o a Roma. Non ero così crudele e buzzurro da raccontare il finale in anticipo, come fanno molti crudeli buzzurri, mi limitavo a dire:« L’ho già visto e avevo voglia di rivederlo.» «Ah Si?!! E dove lo hai visto?» chiedevano le pecorelle semi smarrite.
«In Francia, in lingua originale» rispondevo.
Non era vero, ma cribbio, crudele e buzzurro no, ma un pò stronzo sì. Se non lo eri te lo facevano diventare.

Fine seconda puntata – continua –

Scritto da Angelo Amoretti

25 settembre, 2005 alle 9:41

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SAD CITY – di E. Stark – Prima puntata

senza commenti

Sad City è una piccola città dell’italico nord ovest. La chiamo così da un pò di tempo, da quando aveva iniziato il suo lento ma inesorabile declino.
Anni prima un mio amico che si era trasferito in Florida e che per molto tempo aveva frequentato la città in cui vivevo, era venuto a farmi visita per qualche giorno. Una sera gli proposi di uscire per andare a bere una birra e lui mi disse: «Per favore, non portarmi da My Name perchè è un posto talmente desolato che mi fa venir tristezza».
La sua richiesta mi fece riflettere e per un lunghissimo attimo mi venne in mente l’ambiente: qualche donna quarantenne che cercava di farsi accalappiare da qualcuno, possibilmente più giovane, e altri quarantenni che cercavano di accalappiarla, anche solo per una serata. Uomini che discutevano sulle prestazioni della Ferrari e della Juventus bevendo birra e digestivi. Altri a un passo dalla rovina finanziaria, ma che bene o male tiravano avanti con l’aiuto dei parenti.
Un tizio di cui non ricordo più il nome che lavorava in un ente pubblico, il ventotto del mese, quello successivo al giorno di paga, era già senza soldi perchè li aveva spesi con qualche puttana a bere champagne annacquato, oppure al gioco.
Una sera mi avvicinò chiedendomi:«Senti, avrei bisogno di un favore. Avresti mica cento euro da prestarmi?»
Dopo un attimo di sincero imbarazzo gli risposi che mi dispiaceva, ma non li avevo.

Dissi al mio amico: «Hai ragione, è un posto veramente triste. Dove preferisci andare?»
«Andiamo in qualsiasi altro fottutissimo posto, ma non da My Name!»
Finimmo da Duran. Perlomeno i clienti erano vecchi davvero e spesso era più divertente parlare con loro che con un trentenne. Generalmente sparavano cazzate, anche per via del vino che avevano in corpo, ma avevano la scusante dell’arteriosclerosi galoppante.
I discorsi al bar di quasi tutti i miei coetanei invece consistevano nel parlare di donne, macchine e telefonini. Erano ancora convinti, e lo sarebbero stati fino all’età della pensione, che per conquistare una donna fosse fondamentale avere una bella macchina e ogni anno la cambiavano. Sì perchè se nel 1999 avevano comprato la Focus e, se per caso non avevano beccato qualcuna, l’anno dopo compravano la Yaris. Le BMW e le Mercedes erano inarrivabili e non facevano parte dei loro piani, tanto erano in pochi ad averle. Non salivano di cilindrata o potenza, cercavano di rimanere sugli stessi livelli di spesa, comprando la macchina che in quel momento era più ‘in’ e le Smart da noi non lo erano.
Una volta ho cercato di far capire a un mio amico, nella maniera più indolore possibile, che se sei un uomo senza personalità e senza fascino, insomma, un uomo che non piaci, la macchina che stai guidando e che ti sei guadagnata col sudore della fronte, serve a ben poco.
Non credo che abbia capito, visto che si ostina a cambiarla ogni due anni e che generalmente il sedile accanto al suo è vuoto.

Fine prima puntata – continua –

Scritto da Angelo Amoretti

18 settembre, 2005 alle 16:38

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